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Dopo Henri de Toulouse Lautrec, Edgar Degas ed Edvard Munch
torna al Complesso del Vittoriano l’appuntamento con le mostre
monografiche. Protagonista è, questa volta, Eduard Manet,
artista tra i più importanti del XIX secolo che, morto a soli 51
anni, rivoluzionò, attraverso la scelta di nuovi soggetti e di
nuove formule compositive e cromatiche, le fondamenta stesse
della pittura europea, diventando per naturale designazione il
“padre dell’Impressionismo”.
Sebbene non partecipò mai alle mostre del gruppo, non espose
insieme agli impressionisti, convinto com’era che l’unica via
per affermare la nuova arte moderna fosse prendere parte ai
Salon ufficiali, fu intimo amico di Monet, Renoir, Degas,
Pisarro, si lasciò affascinare dalle poetiche di Charles
Baudelaire e di Emile Zola, frequentò insieme a loro i circoli
intellettuali della Brasserie des Martyres e del Cafè Guerbois
dove nacquero i principi dell’Impressionismo. Condivise con il
movimento l’amore per la società contemporanea, l’immediatezza
con cui l’artista poteva e sapeva riprodurre, come in una
fotografia, la realtà circostante, inoltre l’utilizzo di una
tecnica pittorica (solo apparentemente) fugace, rapida e fatta
di significativi, sapienti tocchi di colore. Tuttavia, nella
sua arte, il passato rimase un costante punto di riferimento
mai dimenticato e rinnegato, la sua tavolozza non si lasciò
quasi mai completamente accendere dalle tinte chiare e
sfavillanti degli altri impressionisti ma restò, anzi, di
tonalità più cupe, perfino scure; la figura umana infine,
nonostante la varietà dei soggetti affrontati, rimase tema
centrale e privilegiato. Di duplice ed ambivalente natura
dunque, la pittura di Manet poggiò saldamente sulla
tradizione, sui modelli dei grandi artisti del passato, da
Raffaello a Tiziano, da Rubens a Velazquez, da Murrillo a Goya,
ma reinterpretò in chiave assolutamente moderna la lezione dei
predecessori creando un linguaggio artistico del tutto nuovo.
Nato
nel 1832 da una famiglia benestante dell’alta borghesia
parigina, Manet intuì ben presto la sua vocazione per la
pittura e, dopo una forzata, breve esperienza in Marina,
voluta fortemente dal padre Auguste che si opponeva con
rigidezza alle inclinazioni artistiche del figlio, cominciò
nel 1850 l’apprendistato presso lo studio di Thomas Couture,
pittore considerato scandaloso nella Parigi borghese e
moralista di metà Ottocento. Iniziò poco dopo a viaggiare per
l’Europa copiando i capolavori custoditi nei Musei più
importanti e, in questo periodo, fu la pittura spagnola, dalle
tinte scure, dai neri profondi, dai rossi accesi e dai
soggetti inusuali a suscitare maggiore influenza sul giovane
Manet. Seguì presto l’ininterrotto amore per la raffigurazione
della figura femminile, del nudo in particolare, che si
manifestò pienamente nel 1863 e nel 1865 con la creazione,
rispettivamente, dei due capolavori Colazione sull’erba e
Olympia, allora ferocemente criticati. Durante gli anni
Sessanta, Manet si dedicò anche al genere della pittura di
storia, delle marine, dei ritratti, delle nature morte; negli
anni Settanta, la produzione più impressionista, le scene di
vita borghese, la tecnica pittorica più sciolta e veloce che
adoperò per reinterpretare temi già indagati in precedenza e
che utilizzò fino al 1883, anno della morte.
Al Vittoriano la curatrice della mostra, Maria Teresa
Benedetti, ha voluto investigare la trasformazione dello stile
dell’artista dagli anni della formazione a quelli delle piena
maturità attraverso l’esposizione di circa centocinquanta
opere. Tuttavia, gli amanti della grande pittura di Manet
rimarranno delusi in questa occasione: nonostante infatti la
presenza di un cospicuo gruppo di dipinti, la grafica è la
vera protagonista della mostra, il cuore del percorso
espositivo, lo strumento attraverso il quale indagare lo
spirito sperimentatore ed investigativo di Manet.
Numerosissimi infatti i disegni, le acqueforti, le litografie,
perfino alcune lastre di incisione originali, a testimoniare
l’originalità dei temi trattati e l’importanza che Manet
conferiva al primo e più importante strumento di un’artista,
il disegno appunto.
Degni di nota e comunque sorprendenti sono, tuttavia, le
Bagnanti sulla Senna dei primi anni Sessanta, da San Paolo del
Brasile, omaggio inequivocabile a Ingres; il dipinto in
prestito dal Museum of Art di Philadelphia Paesaggio marino
con delfini del 1864 con prospettive incrociate e vibranti
tocchi di colore che creano spazio, movimento e profondità e
conferiscono alla tela, nonostante la quasi totale presenza
dei soli nero, blu e bianco nelle loro sfumature, una speciale
luminosità. Allo stesso modo, l’impressionistica Le rondini
del 1873 dalla Collezione E. G. Bührle di Zurigo, affascinante
scena all’aria aperta che ritrae la madre e la moglie del
pittore. Infine, per la sua drammaticità e crudezza, il
dipinto Il suicida, sempre da Zurigo, del 1877 – 81
interessante tela dall’inquadratura quasi cinematografica.
Benedetta
Bovoli |