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ROMA - Munch 1863 - 1944
Roma  (Rm) - Complesso del Vittoriano
11.03.2005 - 19.06.2005

Un centinaio di opere (di cui circa 60 olii) del grande maestro norvegese anticipatore dei temi dell'Espressionismo..


Chissà se "L'Urlo" d'angoscia esistenziale di Edvard Munch non debba essere reinterpretato negli anni a venire come l'urlo-sirena d'allarme per i tanti furti - risolti e non - di cui sembrano essere oramai vittime sacrificali le sue opere. La ventiquattore di passione per i tre lavori trafugati dal lussuoso hotel nel Sud della Norvegia - il "Vestito blu", e le litografie "Autoritratto" e "Ritratto di Strindberg" - subito ritrovate, il rapimento inquietante de "L'Urlo" e della "Madonna" dal Museo Munch di Oslo sotto gli occhi di tutti, e ancora, risalendo al '94, il furto dell'"Urlo" più importante dalla galleria nazionale di Oslo, fortunatamente rientrato, e ancora prima quello del "Vampiro", tutti reati che incombono come corvi sulla memoria storica dell'artista norvegese considerato il padre dell'Espressionismo. Non che le recenti notizie non funzionino alla grande come battage pubblicitario per l'antologica che il Vittoriano dedica a Munch dal 10 marzo al 19 giugno, dove l'allerta fa crescere le aspettative da parte del pubblico, accanto al valore assicurativo delle opere per oltre un milione di euro e, speriamo, anche l'attenzione ai sistemi di sicurezza.

Quell'Urlo storico di Munch, famoso come "Le Demoiselle" di Picasso e "La Notte stellata" di Van Gogh, per ovvie ragioni al Vittoriano non ci sarà. In sua vece, la piccola grande litografia che scandaglia quel volto-mito scarnificato, spettrale e implacabile, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata, le mani a coprire le orecchie, saggio di una tecnica grafica che comunque ha scandito tutta la produzione artistica di Munch fin dal 1894. Acquaforte e litografia, dunque, hanno sempre costituito uno dei momenti più alti della sua attività e la mostra ne tiene ben conto, scortando i circa sessanta oli con una cinquantina di preziose grafiche, insieme anche ad una raccolta di fotografie, presenze cortesi e intriganti per conoscere da vicino un artista. E sfilano tutti i temi cruciali - la malinconia, la solitudine, l'angoscia, la disperazione, la gelosia, l'amore, la morte, la vita - attraverso opere importanti, frutto di prestiti accorti e pesati, che stavolta fanno guardare con un occhio di riguardo in più all'operazione espositiva del Vittoriano rispetto alle passate edizioni più sommarie e superficiali. Merito, forse, della doppia cura firmata da Achille Bonito Oliva accanto a Øivind Storm Bjercke.


Si ripercorre la sua anima inquieta d'artista, nell'accezione più decadente che romantica del termine, che gli fece affermare a metà della sua esistenza, dal 1863 al 1944, "Senza paura e malattia, la mia vita sarebbe una barca senza remi". Paura e malattia, paradossalmente due fonti d'ispirazione per Munch. Fu in questi due elementi che il pittore norvegese, l'esistenzialista dei fiordi, condensava a cavallo del Novecento tutta la sua arte. Una creatività potente e appassionata, costruita sull'equilibrio precario di un'inquietudine psicologica. Una pittura forte e introspettiva che seppe comunicare una tensione esistenziale. Un'arte che abbandonava l'euforia chiassosa e un po' glamour dell'Impressionismo, ma si rifugiava nel malessere interiore dettato da una ipersensibilità fuori dal comune. Una pittura, quella di Munch, che indagava più l'anima che la realtà, o meglio filtrava la realtà attraverso il proprio stato d'animo. Munch fu il primo che andò oltre, che superò le conquiste del naturalismo e trasformò la natura in psicologia, tradusse la natura in simbolo di un'analisi interiore. E tracciò il codice dell'Espressionismo.

"Munch è il pittore esoterico dell'amore, della gelosia, della morte e della tristezza", lo definiva il drammaturgo svedese August Strindberg che con Munch strinse un'intesa culturale basata sulla drammaticità espressiva. Per entrambi un'infanzia segnata dal trauma psicologico. Strindberg che si portò dietro lo spettro del pregiudizio, tanto da chiamarsi nell'autobiografia "Figlio della serva", il malessere della consapevolezza di essere stato un figlio non desiderato di una sventurata cameriera. Munch, che ebbe l'infanzia segnata dalla morte per tubercolosi della madre, quando lui aveva cinque anni, della sorella Sophie quando ne aveva quattordici, del padre quando ne aveva ventisei. E quel senso di spettro parassitario attaccato alla sua famiglia rimase una costante. La mostra ripercorre tutta la sua vita artistica, cresciuta tra il naturalismo di Cristiania, come si chiamerà Oslo fino al 1924, il neo-impressionismo di Parigi e il simbolismo da secessione di Berlino.

 

Disperazione
Munch-museet, Oslo


Sfilano i ritratti degli intellettuali - come quello del pittore "Karl Jensen-Hjell" realizzato nel 1885 a grandezza naturale, il primo di una lunga serie a grande formato - che hanno sostenuto l'estro emotivo di Munch, i protagonisti di quella bohéme norvegese, quei circoli letterari che scalpitavano per uno scongelamento di ipocrisie e ottusità morali della borghesia scandinava fin de siècle, contro cui si scagliavano anche i drammi di Henrik Ibsen. Sfilano i ricordi mansueti di una vita parigina, di quei soggiorni fugaci definiti da Munch "un'isola tranquilla e incontaminata", che sembrano rischiarati da un'ebbrezza momentanea, come la "Ragazza intenta a pettinarsi", suggestionata da una colorazione post-impressionista, con una pioggia di colore tradotta in brevi pennellate diagonali. Ma soprattutto ci sono i suoi temi-tormento. Il simbolismo cupo delle camere mortuarie espresso da "La morte nella stanza della malata", dove i volti dei personaggi rimangono indefiniti nella fissità smunta di una maschera, le ombre si amplificano come alter ego della morte e fagocitano la luminosità della scena, lo spazio angusto e senza vie di fuga comprime claustrofobicamente la narrazione, ma il taglio vertiginoso del piano proietta senza tregua l'osservatore nella scena.

Dalla morte all'amore, come passione, come sesso, come perdizione dei sensi, espresso ne "Il bacio", dove una coppia unita dal bacio perde la tenerezza del sentimento per divenire vorace fagocitazione, i contorni dell'uomo e della donna spariscono, diventano un tutt'uno nelle carni, una fusione, "una pozza di carne liquida". Così "Uomo e donna" rasentano la quintessenza dell'attrazione fatale dove il sesso si fa minaccia, dove la donna appena abbozzata è contaminata da una pesante ombra e il volto si fa rosso incandescente, e l'uomo rimane piegato, con la testa abbandonata sulla mano. Dal sesso brutale alla donna, trasfigurata da Munch attraverso la lente del simbolismo più cupo e torbido. Donna come femme fatale affascinante e demoniaca, come madonna e come vampiro, totem e tabù. Ambigua, come nella giovinetta di "Pubertà", nel turbamento - se non terrore - del passaggio dall'infanzia all'età adulta, seduta in pizzo sul letto sfatto, con le braccia incrociate sul pube a lasciare intravedere il petto appena fiorito, gli occhi spalancati e l'ingombrante ombra proiettata alle sue spalle, presagio di una femminilità in fieri.

 


Le ragazze sul ponte, 1901 ca.
Nasjonalmuseet for Kunst
Nasjonalgalleriet, Oslo


E la "Madonna" come "donna che ama" a metà tra Salomè e Ofelia, tra sonno e veglia, mostrare e nascondere, focalizzata nella tensione del corpo nudo ostentato dalla posizione delle braccia chiuse a cerchio. E dalle tensioni ai sentimenti, come "Malinconia", "Disperazione", e tutta la serie dei "Chiari di luna", costruiti nella sua amata Aasgaardstrand, villaggio di pescatori a circa ottanta chilometri da Oslo, dove la natura si riduce in formule geometriche dal taglio semplicistico come il riflesso della luna sulla molle acqua doppiamente leggibile secondo le fattezze di una provetta o di una "i". Più che un paesaggista naturalista, Munch è un paesaggista d'anime. E a rilevarlo è il suo segno pittorico che parte dal contorno delle figure per dilatarne la profondità psichica, costruendo lo scenario per "linee di forza di un campo magnetico".

Un segno che sperimentò su se stesso, raccontandosi in numerosi autoritratti come il flusso di coscienza di Joyce. Lo fece in pittura, in grafica e in fotografia, di cui fu un appassionato dilettante, ma di cui individuò lo scarto rispetto alla pittura. "La macchina fotografica - scriverà Munch - non potrà competere con la pittura fino a quando non potrà essere adoperata sia in paradiso che all'inferno".

(Fonte: www.repubblica.it, Sezione Arte).


Dal Lunedì al Giovedì:
09,30 - 19,30
Venerdì e Sabato:
09,30 - 23,30
Domenica:
09.30 - 20,30

Complesso del Vittoriano
Via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali)

Intero: 9 €
Ridotto: 7 € bambini sotto 12 anni / Adulti oltre 65 anni
Gruppi 6 € prenotati dal lunedì al venerdì + 4€ a persona per spese d'agenzia

Cooperativa "IL SOGNO"
Viale Regina Margherita, 192 - 00198 ROMA
Tel. 06/85.30.17.58 - Fax 06/85.30.17.56
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