Quell'Urlo storico di Munch, famoso come "Le Demoiselle" di Picasso e "La Notte stellata" di Van Gogh, per ovvie ragioni al Vittoriano non ci sarà. In sua vece, la piccola grande litografia che scandaglia quel volto-mito scarnificato, spettrale e implacabile, con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata, le mani a coprire le orecchie, saggio di una tecnica grafica che comunque ha scandito tutta la produzione artistica di Munch fin dal 1894. Acquaforte e litografia, dunque, hanno sempre costituito uno dei momenti più alti della sua attività e la mostra ne tiene ben conto, scortando i circa sessanta oli con una cinquantina di preziose grafiche, insieme anche ad una raccolta di fotografie, presenze cortesi e intriganti per conoscere da vicino un artista. E sfilano tutti i temi cruciali - la malinconia, la solitudine, l'angoscia, la disperazione, la gelosia, l'amore, la morte, la vita - attraverso opere importanti, frutto di prestiti accorti e pesati, che stavolta fanno guardare con un occhio di riguardo in più all'operazione espositiva del Vittoriano rispetto alle passate edizioni più sommarie e superficiali. Merito, forse, della doppia cura firmata da Achille Bonito Oliva accanto a Øivind Storm Bjercke.
Si ripercorre la sua anima inquieta d'artista, nell'accezione più decadente che romantica del termine, che gli fece affermare a metà della sua esistenza, dal 1863 al 1944, "Senza paura e malattia, la mia vita sarebbe una barca senza remi". Paura e malattia, paradossalmente due fonti d'ispirazione per Munch. Fu in questi due elementi che il pittore norvegese, l'esistenzialista dei fiordi, condensava a cavallo del Novecento tutta la sua arte. Una creatività potente e appassionata, costruita sull'equilibrio precario di un'inquietudine psicologica. Una pittura forte e introspettiva che seppe comunicare una tensione esistenziale. Un'arte che abbandonava l'euforia chiassosa e un po' glamour dell'Impressionismo, ma si rifugiava nel malessere interiore dettato da una ipersensibilità fuori dal comune. Una pittura, quella di Munch, che indagava più l'anima che la realtà, o meglio filtrava la realtà attraverso il proprio stato d'animo. Munch fu il primo che andò oltre, che superò le conquiste del naturalismo e trasformò la natura in psicologia, tradusse la natura in simbolo di un'analisi interiore. E tracciò il codice dell'Espressionismo.
"Munch è il pittore esoterico dell'amore, della gelosia, della morte e della tristezza", lo definiva il drammaturgo svedese August Strindberg che con Munch strinse un'intesa culturale basata sulla drammaticità espressiva. Per entrambi un'infanzia segnata dal trauma psicologico. Strindberg che si portò dietro lo spettro del pregiudizio, tanto da chiamarsi nell'autobiografia "Figlio della serva", il malessere della consapevolezza di essere stato un figlio non desiderato di una sventurata cameriera. Munch, che ebbe l'infanzia segnata dalla morte per tubercolosi della madre, quando lui aveva cinque anni, della sorella Sophie quando ne aveva quattordici, del padre quando ne aveva ventisei. E quel senso di spettro parassitario attaccato alla sua famiglia rimase una costante. La mostra ripercorre tutta la sua vita artistica, cresciuta tra il naturalismo di Cristiania, come si chiamerà Oslo fino al 1924, il neo-impressionismo di Parigi e il simbolismo da secessione di Berlino.
Disperazione
Munch-museet, Oslo
Sfilano i ritratti degli
intellettuali - come quello del
pittore "Karl Jensen-Hjell"
realizzato nel 1885 a grandezza
naturale, il primo di una lunga
serie a grande formato - che hanno
sostenuto l'estro emotivo di Munch,
i protagonisti di quella bohéme
norvegese, quei circoli letterari
che scalpitavano per uno
scongelamento di ipocrisie e
ottusità morali della borghesia
scandinava fin de siècle, contro cui
si scagliavano anche i drammi di
Henrik Ibsen. Sfilano i ricordi
mansueti di una vita parigina, di
quei soggiorni fugaci definiti da
Munch "un'isola tranquilla e
incontaminata", che sembrano
rischiarati da un'ebbrezza
momentanea, come la "Ragazza intenta
a pettinarsi", suggestionata da una
colorazione post-impressionista, con
una pioggia di colore tradotta in
brevi pennellate diagonali. Ma
soprattutto ci sono i suoi
temi-tormento. Il simbolismo cupo
delle camere mortuarie espresso da
"La morte nella stanza della
malata", dove i volti dei personaggi
rimangono indefiniti nella fissità
smunta di una maschera, le ombre si
amplificano come alter ego della
morte e fagocitano la luminosità
della scena, lo spazio angusto e
senza vie di fuga comprime
claustrofobicamente la narrazione,
ma il taglio vertiginoso del piano
proietta senza tregua l'osservatore
nella scena.
Dalla morte all'amore, come
passione, come sesso, come
perdizione dei sensi, espresso ne
"Il bacio", dove una coppia unita
dal bacio perde la tenerezza del
sentimento per divenire vorace
fagocitazione, i contorni dell'uomo
e della donna spariscono, diventano
un tutt'uno nelle carni, una
fusione, "una pozza di carne
liquida". Così "Uomo e donna"
rasentano la quintessenza
dell'attrazione fatale dove il sesso
si fa minaccia, dove la donna appena
abbozzata è contaminata da una
pesante ombra e il volto si fa rosso
incandescente, e l'uomo rimane
piegato, con la testa abbandonata
sulla mano. Dal sesso brutale alla
donna, trasfigurata da Munch
attraverso la lente del simbolismo
più cupo e torbido. Donna come femme
fatale affascinante e demoniaca,
come madonna e come vampiro, totem e
tabù. Ambigua, come nella giovinetta
di "Pubertà", nel turbamento - se
non terrore - del passaggio
dall'infanzia all'età adulta, seduta
in pizzo sul letto sfatto, con le
braccia incrociate sul pube a
lasciare intravedere il petto appena
fiorito, gli occhi spalancati e
l'ingombrante ombra proiettata alle
sue spalle, presagio di una
femminilità in fieri.
Le ragazze sul ponte, 1901 ca.
Nasjonalmuseet for Kunst
Nasjonalgalleriet, Oslo
E la "Madonna" come "donna che ama"
a metà tra Salomè e Ofelia, tra
sonno e veglia, mostrare e
nascondere, focalizzata nella
tensione del corpo nudo ostentato
dalla posizione delle braccia chiuse
a cerchio. E dalle tensioni ai
sentimenti, come "Malinconia",
"Disperazione", e tutta la serie dei
"Chiari di luna", costruiti nella
sua amata Aasgaardstrand, villaggio
di pescatori a circa ottanta
chilometri da Oslo, dove la natura
si riduce in formule geometriche dal
taglio semplicistico come il
riflesso della luna sulla molle
acqua doppiamente leggibile secondo
le fattezze di una provetta o di una
"i". Più che un paesaggista
naturalista, Munch è un paesaggista
d'anime. E a rilevarlo è il suo
segno pittorico che parte dal
contorno delle figure per dilatarne
la profondità psichica, costruendo
lo scenario per "linee di forza di
un campo magnetico".
Un segno che sperimentò su se
stesso, raccontandosi in numerosi
autoritratti come il flusso di
coscienza di Joyce. Lo fece in
pittura, in grafica e in fotografia,
di cui fu un appassionato
dilettante, ma di cui individuò lo
scarto rispetto alla pittura. "La
macchina fotografica - scriverà
Munch - non potrà competere con la
pittura fino a quando non potrà
essere adoperata sia in paradiso che
all'inferno".
(Fonte: www.repubblica.it, Sezione Arte).